L’esperienza e gli insegnamenti di Javier Schunk, direttore del Master in Cooperazione Internazionale presso l’ISPI di Milano: uno sguardo profondo sull’europrogettazione.
Un percorso comune, una storia da raccontare
Il Prof. Javier Schunk dirige da sedici anni il Master in Cooperazione Internazionale presso l’ISPI di Milano (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale). Lo abbiamo conosciuto nell’ambito del Corso di Europrogettazione, che è parte del programma del Master e che dallo scorso anno è curato dallo staff della nostra Guida.
Il Prof. Schunk conosce e utilizza da anni la nostra Guida nell’ambito del Master. I suoi commenti ci hanno permesso di aggiungere nuovi elementi importanti al “corpus” della Guida: un capitolo dedicato al percorso che dalle istituzioni e dalle politiche porta ai bandi e ai progetti europei; e un capitolo che, approfondendo questo percorso, fornisce una classificazione più fine e dettagliata dei fondi e dei programmi europei.
Come vedremo, questi due punti sono centrali nell’esperienza e nell’approccio del Prof. Schunk. Non sono però i soli: tutta la sua storia professionale è ricca di spunti e di insegnamenti per chi si occupa di europrogettazione.
In questa intervista ne ripercorreremo le tappe principali:
- la “scoperta” dell’europrogettazione, a partire da un’esperienza sul campo in Senegal;
- l’esplorazione del mondo dell’europrogettazione, in varie vesti e da diverse prospettive;
- il lavoro a Bruxelles, la partecipazione alle policy europee, il significato autentico del “fare lobby” attraverso i progetti europei e la sua rilevanza per il Terzo Settore;
- la visione su alcuni degli strumenti più tipici del mondo dell’europrogettazione.
Questi e altri temi interessanti potranno essere approfonditi nell’ambito del “Modulo Europrogettazione” della nuova edizione del Master di Cooperazione Internazionale dell’ISPI, che inizierà a ottobre.
D. Javier, come è iniziata la sua “storia” con l’europrogettazione?
R. La mia storia con l’europrogettazione, come tutte le storie di esplorazione, ha certamente avuto un inizio, ma anche vari punti di svolta che mi hanno portato a nuove scoperte.
La mia “porta d’ingresso” al mondo dell’europrogettazione è stata un lavoro sul campo in Senegal, nell’ambito di un progetto di cooperazione allo sviluppo. A partire da questa esperienza sono entrato in contatto con una ONG di Torino attiva in questo settore, con la quale ho lavorato prima come project manager e poi come coordinatore dell’area progetti.
Ai tempi, le attività dell’organizzazione erano molto dipendenti dai finanziamenti del governo italiano per la cooperazione allo sviluppo (attuale AICS), che proprio in quel periodo entravano in una fase di particolari ristrettezze. Ho dunque dovuto adoperarmi per diversificare le fonti di finanziamento della mia ONG e presentare così il mio primo progetto europeo.
D.Com’è andata con il suo primo progetto?
R. Le modalità di presentazione dei progetti europei erano allora molto diverse da oggi. Non esistevano i bandi: erano le ONG a preparare in autonomia i loro progetti, che venivano poi perfezionati con l’aiuto di un organismo di collegamento e di supporto dedicato alle ONG italiane a Bruxelles. Questo organismo facilitava i contatti delle ONG con i funzionari della Commissione europea (“desk”) incaricati di uno specifico paese. Veniva a volte anche organizzato un incontro tra ONG e “desk”, in cui veniva concordato il finanziamento del progetto. Questo fa capire quanto sia cambiato negli anni il modo di concepire i progetti europei.
Un punto di svolta si è avuto tra il 2000 e il 2001, con l’istituzione di EuropeAid. Sotto l’egida dell’allora Commissario Poul Nielson, la Commissione europea (presieduta da Romano Prodi) fece la scelta di abbandonare questo sistema, basato su micro-progetti presentati spontaneamente dalle singole ONG. In un’ottica di coerenza e di efficienza, venne istituito un processo di programmazione degli interventi. Un processo basato sul ruolo attivo delle diverse Delegazioni dell’UE, create appunto in quegli anni (deconcentrazione); e cui erano chiamate a contribuire le ONG e le istituzioni presenti nei vari paesi beneficiari (decentralizzazione).
Questo processo (che era già stato testato nell’ambito degli aiuti umanitari) è lo stesso che esiste ancora oggi e che prevede una programmazione annuale e pluriennale, la pubblicazione di bandi e la presentazione di progetti in risposta ai bandi.
D.Una vera rivoluzione copernicana. Come ha reagito a questo cambiamento?
R. Questo cambiamento è stata una tappa importante nel processo di “professionalizzazione” dei progetti europei di cooperazione esterna. Da quel momento, la Commissione europea ha costruito procedure e parametri più complessi e ha innalzato i criteri di qualità richiesti per il finanziamento dei progetti. Il quadro definito da questo cambiamento accomuna (e addirittura, forse, definisce) i diversi ambiti in cui operano oggi l’europrogettazione e gli europrogettisti. Criteri e procedure simili esistono oggi in tutti i settori dell’europrogettazione, non solo in quello della cooperazione allo sviluppo.
I “contractors” e le ONG più grandi e organizzate hanno saputo adeguarsi a questo cambiamento, includendo nel loro organico persone specializzate nella scrittura di progetti; e persone in loco in grado di interloquire con le Delegazioni dell’UE e con le istituzioni dei paesi beneficiari. Altre organizzazioni sono entrate in difficoltà e si sono trovate di fronte alla scelta tra organizzarsi internamente, o associarsi attraverso specifici poli di aggregazione.
È questa la scelta cui si trova ancora oggi di fronte un’organizzazione che intende approcciare seriamente il settore dell’europrogettazione.
D. Quali sono stati i suoi primi bandi?
R. Per più di dieci anni mi sono dedicato ai progetti per le ONG nel settore della cooperazione allo sviluppo, prima e dopo la “rivoluzione copernicana” introdotta dal sistema della programmazione e dei bandi. Bandi e finanziamenti specifici per questo tipo di azioni facevano allora riferimento a una linea tematica specifica, nota come “B7-6000” e attiva fin dal 1976.
L’introduzione di un vero e proprio programma europeo dedicato ad attori non statali e autorità locali arrivi nei paesi in via di sviluppo ha permesso di ottenere una maggior coerenza tra l’azione dell’UE e quella delle ONG nei singoli paesi. Questo programma si è evoluto fino a diventare oggi uno dei programmi del “pilastro tematico” di Europa Globale (NDICI).
Per chi volesse ripercorrere le tappe storiche di questo percorso, è ancora possibile consultare:
- il Regolamento “ante litteram” del 1998 per il finanziamento delle azioni delle ONG nei paesi in via di sviluppo,
- un documento strategico del 2002 che ripercorre quanto realizzato e “ridisegna” il ruolo delle ONG nel settore della cooperazione allo sviluppo,
- la proposta di programma per attori non statali e autorità locali del 2006,
- un documento del 2008 che fornisce una valutazione generale degli interventi realizzati fino a quel momento attraverso le ONG,
- un nuovo documento strategico del 2012 sulle stesse tematiche.
Tutto quello che è venuto dopo è, per così dire, attualità.
Questo vi dà un’idea del quadro di riferimento dell’epoca, del primo punto di vista da cui ho iniziato ad approcciare il mondo dell’europrogettazione.
D. Parlando di punti di vista, il mondo dell’europrogettazione per lei è… un elefante. Ci spiega la metafora?
R. La metafora non è mia, ma è ispirata a una parabola antica, di origine indiana e buddista.
L’europrogettazione è simile a un elefante, cui si avvicinano alcuni uomini bendati, che non hanno mai visto un elefante fino a quel momento e ai quali viene chiesto di definire come sia un elefante. Chi si avvicina alla coda dirà che un elefante assomiglia a una grossa fune, chi toccherà le orecchie dirà invece che in realtà si tratta di un grosso ventaglio, chi toccherà le zampe dirà che sia piuttosto simile a un tronco di un albero; e così via.
Lo stesso succede a chi approccia l’europrogettazione mantenendo un focus su una sola tipologia di fondi e programmi – sui programmi comunitari tematici, sui fondi strutturali o su altre parti di questo grande “elefante”. Ogni parte rappresenta effettivamente un mondo e un modo di lavorare diverso, ma è molto importante saper riconoscere un solo “animale” dietro alle singole specificità.
La globalità dell’“elefante” risiede nel percorso che lega tra loro istituzioni, politiche, fondi e programmi, documenti di programmazione, bandi e progetti. L’esperienza dei progetti (questo è molto importante) deve a sua volta risalire alle istituzioni per la definizione delle politiche e di un nuovo ciclo di programmazione.
Molti corsi di europrogettazione e molti europrogettisti non colgono questi aspetti e sviluppano una visione ristretta del mondo dei progetti europei. Possono avere difficoltà a orientarsi in parti non familiari di questo “elefante”; o approcciare i progetti europei in modo utilitaristico, come mera fonte di finanziamento, piuttosto come parte di processo più ampio, creatore di contenuti di grande valenza civica, se non politica (nel senso più nobile del termine).
Nella mia visione dell’elefante, i programmi e i fondi dedicati alla cooperazione esterna (che definisco programmi e fondi “extra”) occupano una posizione specifica, perché hanno logiche e modalità di funzionamento diverse dai fondi e programmi “intra” (destinati prioritariamente ai paesi dell’UE). I programmi “extra” sono destinati allo sviluppo di paesi tra loro molto diversi, applicano politiche UE variabili a seconda del paese e si basano, come già ricordato, su principi di deconcentrazione e decentralizzazione.
Questa specificità è ben spiegata nei due nuovi capitoli della vostra Guida, ma meriterebbe di essere ripresa anche nella sua struttura generale.
D. Dunque anche lei ha avuto difficoltà a riconoscere… zanne e proboscidi?
R. Assolutamente sì, ed è proprio da questa esperienza che ho sviluppato la mia personale immagine dell’elefante. Dal 2003 ho assunto la funzione di direttore dell’ufficio di Bruxelles di una delle più grandi federazioni italiane dedicate alle organizzazioni della società civile.
In questa veste ho dovuto imparare a riconoscere e a orientarmi in parti dell’elefante che non conoscevo, in particolare in quelle legate a fondi e programmi “intra”. Fino a quel momento per me i progetti europei erano dei “fondi dati alle ONG per realizzare azioni in paesi in via di sviluppo”; ma da quel momento iniziavo a capire che c’era ben di più. Il linguaggio era diverso, così come le procedure, le politiche, gli interlocutori, le DG di riferimento. Sembrava a tutti gli effetti un “animale” diverso.
Mi sono dunque iscritto a un corso di europrogettazione: e questo è stato, a ben vedere, il mio primo contatto con il termine “europrogettazione”. Il corso mi ha raccontato e spiegato una realtà diversa da quella che conoscevo. Una realtà composta da moltissime politiche tematiche e da una moltitudine di fondi e programmi di riferimento. Ma anche in questo caso, mi sono scontrato con una visione parziale dell’elefante, diversa dalla mia ma non ancora completa; limite che ho successivamente incontrato anche in molti altri corsi di europrogettazione. Ho superato soltanto gradualmente e con l’esperienza, che mi ha permesso di conoscere sia il mondo extra-europeo che quello intra-europeo.
Quella del corso di europrogettazione è stata comunque una tappa molto importante nel mio percorso di apprendimento e per svolgere il mio lavoro a Bruxelles su bandi e progetti intra-europei.
A partire dal 2006, quando ho iniziato a dirigere il Master in Cooperazione Internazionale dell’ISPI, ho voluto trasferire nel corso di europrogettazione la visione globale che avevo acquisito, per rendere gli studenti capaci di vedere la globalità del mondo dell’europrogettazione e di orientarsi facilmente in tutte le parti di questa “giungla”. Una visione che ora cerchiamo di trasmettere collaborando con voi nella realizzazione del corso specifico di Europrogettazione nell’ambito del Master.
D. Il suo nuovo ruolo a Bruxelles andava oltre la scrittura dei progetti europei.
R. Esatto. La mia collocazione all’interno di una federazione presente a Bruxelles mi esponeva sicuramente al mondo dei progetti, ma anche a quello della policy. È questa esperienza che mi ha permesso di vedere chiaramente l’importanza di “fare policy” quando si lavora nel mondo dell’europrogettazione.
“Fare policy” con l’europrogettazione ha una doppia valenza. Rappresenta innanzitutto un dovere civico di cittadinanza attiva europea: i progetti europei prevedono l’utilizzo di fondi dei contribuenti europei per testare, attraverso i progetti, soluzioni che possono essere utili a tutta la comunità europea, e nel nostro caso ai paesi vicini, a quelli parte del processo di allargamento e ai cosiddetti paesi terzi. È dunque importante che questa esperienza risalga (verso le istituzioni che possono trarre tesoro dell’esperienza, a beneficio delle policy e dell’intera cittadinanza) e sia condivisa (con organizzazioni affini che potranno replicare l’esperienza, perfezionarla e svilupparla ulteriormente).
“Fare policy” ha anche una valenza operativa, altrettanto importante. Se (banalizzando al massimo) consideriamo i fondi europei come un “bancomat” che permette alle ONG di finanziare la propria attività, partecipare al dibattito sulle policy in ambito comunitario permette di definire (o comunque capire) i contenuti e le modalità di accesso al “bancomat” dal quale si dovrà attingere.
In altre parole: nel momento in cui i progetti europei vengono sviluppati con una visione di policy sufficientemente ampia, e nel momento in cui questa visione risale i gradini delle istituzioni e l’esperienza dell’organizzazione viene scambiata e discussa, allora l’organizzazione che fa europrogettazione ha un doppio beneficio. Ha un beneficio morale, perché ha usato i fondi europei nel modo giusto; ma ha anche un beneficio pratico, perché il suo contributo al dibattito le permette di orientare la programmazione, o quantomeno di prevederne gli orientamenti e di muoversi di conseguenza. L’organizzazione sa già cosa “può funzionare” e pensare a un buon progetto prima ancora che esca il bando. Si presenta al “bancomat” in qualità di “socio della banca”… potendo già aspettarsi cosa ne uscirà.
D. Tutto questo è molto interessante. Ma è davvero alla portata di una ONG?
R. Sembra complicato, ma è questo il modo corretto e più efficace di fare europrogettazione. L’europrogettazione non è un “assalto alla diligenza” per acquisire dei fondi, come purtroppo viene solitamente inteso. Il suo successo non si misura soltanto in base ai fondi acquisiti, ma anche in base a quanto si è saputo contribuire alle policy europee: attraverso le proprie organizzazioni-ombrello di riferimento, la partecipazione ai libri verdi e ai libri bianchi, gli input e i feedback forniti alle istituzioni attraverso gli appositi canali. Sono due “misure di successo” strettamente collegate: l’una supporta l’altra e una non dura a lungo senza l’altra. L’“assalto alla diligenza” non è una tecnica durevole, e direi anche corretta, di usare i fondi europei.
È vero, tutto questo esprime un grande salto concettuale, ma è importante farlo emergere: l’europrogettazione esprime in sé i massimi livelli di quella che in precedenza ho chiamato “cittadinanza attiva europea”. Le organizzazioni che fanno europrogettazione sono sia attuatori di politiche, sia “corpi sociali intermedi” che si attivano per definirle. Non sono (o non dovrebbero essere) “free-riders” che si rivolgono al finanziatore col solo scopo di ottenere fondi.
Questo è il concetto (molto nobile) di “lobby” che emerge da un modo corretto ed efficace di intendere l’europrogettazione e i fondi europei. Questo è quello che le istituzioni comunitarie si aspettano e che premiano nella valutazione dei progetti.
D. Come è possibile realizzare tutto questo per un’organizzazione qualsiasi, magari piccola?
R. È possibile e utile, e ho avuto modo di toccare con mano il “come”, proprio nell’ambito della mia esperienza a Bruxelles. Facevo parte di una federazione che rappresentava a Bruxelles una rete di associazioni piccole. Le associazioni facevano riferimento al nostro ufficio per due aspetti principali: per informazioni su politiche, bandi e per avere supporto nell’attività di progettazione; ma anche per partecipare al dibattito sulle policy europee, restando regolarmente aggiornate e fornendo il loro contributo.
Mi occupavo soprattutto di tematiche sociali legate al lavoro e ai fenomeni migratori. Anche il nostro ufficio, in questo, non lavorava da solo, ma in rete e attraverso ulteriori organizzazioni settoriali e specifici canali di rappresentanza. La piattaforma di riferimento per il nostro lavoro era la “Social Platform”, la più grande organizzazione europea del settore che raccoglie decine di membri: nella maggior parte altre “organizzazioni ombrello” come la nostra, ognuna portatrice di una specifica esperienza nel sociale e di una sua specifica rete tematica.
Se ne parla diffusamente sulla pagina della Commissione europea dedicata al sociale: per la Commissione europea e per le istituzioni comunitarie strutture come la Social Platform e i suoi membri sono interlocutori importanti, non semplici “comparse” senza spessore.
I Direttori Generali della DG della Commissione europea venivano agli incontri della Social Platform prendendo appunti su quanto veniva detto, riguardo a bisogni, idee e priorità nei diversi ambiti del sociale.
Lo stesso valeva per le iniziative più importanti organizzate dai membri della Social Platform: azioni di visibilità e di advocacy, campagne, incontri e produzione di materiali volti a “nutrire” le policy europee. Queste azioni e questi appunti andavano a condizionare le politiche, e quindi a monte i programmi, e quindi i bandi. Erano parte viva nel processo di formazione di policy, programmi e bandi, non lo subivano passivamente. I membri della nostra federazione ne erano informati e potevano mettersi “in coda al bancomat” e iniziare a pensare ai loro progetti con una certa cognizione di causa, in anticipo rispetto a chi non faceva parte di queste strutture.
Si tratta di un processo e di una struttura che esistono in tutti i settori, soprattutto in quelli legati all’attività delle ONG, e accessibile a tutte le ONG. Attraverso questi canali è possibile avere informazioni da Bruxelles, rappresentanza a Bruxelles, una propria voce a Bruxelles, anche per i più piccoli. E attraverso questi canali è possibile, anche per i più piccoli, contribuire alle politiche e alla programmazione dei progetti europei.
La cosa importante è trovare il migliore “punto di approdo” legato al proprio settore di intervento, ne esistono a centinaia. Ad esempio, le Fondazioni e il mondo della filantropia hanno Philea (Philantropy Europe Association), risultato della fusione di due organizzazioni simili, Dafne (Donors and Foundations Network) e EFC (European Foundations Centre). Quest’ultima peraltro guidata per alcuni anni Massimo Lapucci, Segretario Generale della Fondazione CRT. Ma si possono fare esempi simili in tutti i settori.
Le organizzazioni-ombrello e le piattaforme presenti a Bruxelles sono il primo dei “punti di approdo” per le ONG ma non solo: lo stesso discorso vale anche per le associazioni, per le università, per i centri di ricerca, ecc. Ed esse sono interlocutrici privilegiate della Commissione europea, ma non solo. Il CESE ad esempio (Comitato economico e sociale europeo), è un altro dei canali importanti per portare l’azione e gli interessi della società civile a livello di policy. Il CdR (Comitato europeo delle regioni) è un canale analogo per gli enti locali e territoriali.
Lo stesso vale per la Rappresentanza Permanente d’Italia presso l’Unione Europea (nota comunemente come “ItalRap”), che si occupa di tutto ciò che è di interesse per le istituzioni e le organizzazioni italiane in sede europea e (in particolare) dei lavori preparatori delle riunioni del Consiglio. Svolge dunque un lavoro di “interfaccia” importantissimo, da una parte verso istituzioni e organizzazioni italiane, dall’altra verso le policy comunitarie. Tutta la legislazione europea passa tra le mani dell’ItalRap e i documenti che esso prepara vengono, nella maggior parte dei casi, solo formalmente approvati dai rappresentanti italiani in sede di Consiglio.
D. Un percorso lungo e interessantissimo. Eravamo partiti dai progetti di cooperazione allo sviluppo e siamo arrivati alle decisioni del Consiglio.
R. È proprio così, ed è importante capire come tutte le parti di questo grande elefante, apparentemente così diverse, sono tra loro collegate.
I progetti di cooperazione allo sviluppo hanno a che fare anche con il ruolo di rappresentanza delle organizzazioni-ombrello. Quella dedicata al settore dell’aiuto allo sviluppo si chiama CONCORD ed è di fatto un’evoluzione, molto più ampia, organizzata e diversamente strutturata, dell’organismo di collegamento che aiutava le ONG nei progetti europei e nelle relazioni con i “desk” della Commissione europea… tanto tempo fa quando il sistema funzionava molto diversamente.
I progetti di cooperazione allo sviluppo hanno (ovviamente) a che fare anche con il ruolo del Consiglio, del CESE e del CdR. Chi si occupa di sociale e partecipa alla Social Platform (affrontando temi quali i diritti dell’infanzia, l’uguaglianza di genere o l’inclusione sociale) può occuparsi anche di cooperazione allo sviluppo: alcune organizzazioni partecipano infatti sia alla Social Platform che a CONCORD.
È un mondo più piccolo e più interconnesso di quanto possa sembrare. E questo vale per tutti gli aspetti relativi ai progetti europei.
D. Giustamente, il mondo della cooperazione allo sviluppo è anche un “laboratorio” da cui nascono idee, poi mutuate in altri ambiti.
R. Certamente, le metodologie e gli strumenti dell’europrogettazione circolano e vengono mutuati rapidamente, in questo mondo così interconnesso.
Il Quadro Logico ad esempio, strumento cardine nel mondo dell’europrogettazione, nasce negli anni ’70-’80 nell’ambito della cooperazione allo sviluppo americana (USAid). A seguire, si è rapidamente affermato nel mondo della cooperazione allo sviluppo europea (EuropeAid). È oggi uno strumento di interlocuzione fondamentale tra tutti i partecipanti a un qualsiasi progetto europeo (finanziatore, capofila, partner), che ne riassume la logica e le modalità di misura dei risultati raggiunti (indicatori e fonti di verifica).
Invece la “Teoria del Cambiamento” (Theory of Change), strumento molto usato oggi nell’ambito della cooperazione allo sviluppo, nasce verso la metà degli anni ’80 in ambito sociale, con l’idea di fondo che i progetti debbano intervenire sulle cause di fondo e produrre cambiamenti strutturali (ad esempio, nei modelli sociali e nei comportamenti che provocano la violenza sulle donne), oltre che prodotti e risultati tangibili (ad esempio, una casa di accoglienza dà sollievo ad alcune donne vittime di violenza ma non risolve il problema alla radice).
Il “nuovo” modello di Quadro Logico, introdotto nel 2018, costituisce una sorta di “ibridazione” tra i due strumenti, il Quadro Logico e la Theory of Change. Include tutto ciò che si trova nel modello “storico” di Quadro Logico (Logica d’Intervento, Indicatori, Fonti di Verifica, Condizioni) con un maggior livello di dettaglio (Baseline, Valore Target, Valore Attuale) e con una maggior attenzione ai cambiamenti strutturali, impliciti in una nuova terminologia che fa riferimento a Impatto, Esito e Prodotti per indicare Obiettivo generale, Obiettivo specifico e Risultati.
Le intenzioni di questa “ibridazione” sono interessanti e positive. In molti casi però sono interpretate e applicate male nell’elaborazione dei progetti. Inseriscono un elemento di complessità in più che può contribuire a creare un ulteriore divario tra piccole e grandi organizzazioni, tra chi ha le capacità operative per seguire questi cambiamenti e chi non le ha.
Anche perché in molti casi lo stesso processo di monitoraggio e valutazione non è – e non può realisticamente essere – approcciato in modo rigoroso. Ad esempio, riempire correttamente la colonna “baseline” di un Quadro Logico implica tre possibili opzioni: 1) realizzare uno studio prima ancora di aver avviato il progetto (cosa spesso non possibile per mancanza di competenze e risorse); 2) stimare dei dati di partenza, con scarso rigore scientifico; 3) posticipare la definizione di una baseline all’avvio del progetto (eludendo quindi di fatto la richiesta del dato). E anche nel momento in cui il progetto è avviato, soltanto una minoranza dei progetti può dedicare risorse alla realizzazione di un “baseline study” e a un suo aggiornamento regolare, serio e rigoroso. Sappiamo poi che senza una “baseline” affidabile e senza un benchmark che possa servire da riferimento sull’evoluzione nel tempo del fenomeno, risulta complesso e direi poco credibile definire una “end-line”. Nel complesso, ne risulta un esercizio che certamente manifesta l’intenzione di misurare l’impatto, e che va in questa direzione, ma che nella sostanza si riduce a un esercizio teorico e formale.
L’intero processo di monitoraggio e valutazione è intrinseco nell’idea di Quadro Logico e di Teoria del Cambiamento ed è giustamente percepito come un aspetto sempre più importante: è fondamentale poter dimostrare che le risorse della collettività, non utilizzate ad esempio per un ospedale o per una scuola, hanno avuto un significativo impatto grazie all’esecuzione di un progetto. Soffre però di un paradosso: quanto più si cerca di essere precisi nel misurare risultati, effetti e cambiamenti, tanto più diventa necessario affidarsi a sistemi poco rigorosi per farlo, per mancanza oggettiva di dati, di capacità di raccolta dei dati e per mancanza di risorse utili a fare questi esercizi. Rendendo il processo di monitoraggio e valutazione molto meno solido e accurato di quanto ci si potrebbe (e dovrebbe) aspettare.
Non esiste una soluzione definitiva a questo problema.
Sicuramente è necessario essere seri e comprendere potenzialità e limiti di tutti gli approcci.
È inoltre necessario intervenire su un altro dei limiti con cui si scontra l’attività di monitoraggio e valutazione: la progettazione. Se i progetti sono “disegnati male”, con una logica d’intervento definita in maniera grossolana, è inutile applicare meccanismi troppo sofisticati di monitoraggio e valutazione. Per una misura ragionevolmente buona di risultati, effetti e impatti di un progetto è innanzitutto necessaria una loro buona definizione.
Infine, è necessario mantenersi continuamente aperti all’apprendimento e al miglioramento. Bisogna saper alzare la testa nel proprio lavoro quotidiano per progredire e tenersi aggiornati. Non bisogna concentrare tutti gli sforzi nel semplice “attacco alla diligenza”.
D. Aggiornamento, apprendimento e miglioramento: sono proprio gli obiettivi del Master in International Cooperation dell’ISPI, esatto?
R. Proprio così. Il Master in International Cooperation giunge con l’anno 2022-2023 alla sua diciassettesima edizione, grazie anche al contributo della Fondazione Cariplo – che è anche partner della vostra Guida.
Sono gli ultimi giorni per chi volesse iscriversi: le iscrizioni sono aperte fino al 14 settembre ed è previsto un Open Day online il 7 settembre. Il 20-21 settembre 2022 avranno luogo le prove di selezione online e l’inizio del Master è previsto per il 10 ottobre 2022.
Il Master fornisce le competenze e gli strumenti per operare nei campi dell’aiuto umanitario e della cooperazione allo sviluppo. Prevede alcuni mesi di lezione in modalità web-live, lezioni in aula a partire da gennaio, uno study tour sul campo e uno stage operativo di una durata variabile tra 3 e 6 mesi. La formazione ha un taglio operativo: è ricca di esercitazioni e lavori di gruppo, simulazioni, studi di caso, giochi di ruolo e incontri online con esperti che lavorano sul campo nei diversi ambiti.
Non è (a scanso di equivoci) un Master in europrogettazione ma un Master in Cooperazione Internazionale, ma prevede al suo interno un Corso di Europrogettazione (a cura dello staff della Guida) e tocca le tematiche dell’europrogettazione da vari punti di vista. La cooperazione allo sviluppo riguarda del resto varie aree tematiche (salute, educazione, nutrizione, infrastrutture, diritti, genere, comunicazione, ecc.), viene tipicamente realizzata attraverso progetti e rappresenta complessivamente (cooperazione + aiuto umanitario) quasi un quarto dei fondi europei a gestione diretta (91 miliardi di euro). Fondi ai quali vanno a sommarsi i fondi non gestiti direttamente dall’Europa e quelli “non europei”, come i fondi della cooperazione bilaterale dei paesi riuniti nel comitato DAC dell’OSCE.
Il Master si rivolge a studenti di tutte le età, lavoratori e non, con propensione all’azione internazionale ed eventuale esperienza tematica in uno dei molti settori in cui interviene la cooperazione internazionale.
Spero che la mia esperienza, e perché no, la frequenza del Master, possano dare spunti ai lettori della vostra Guida, uno strumento che apprezziamo e che siamo lieti di poter contribuire a migliorare.
In bocca al lupo e buona continuazione!